Perdono: dal rancore al ricordo
Autori Vari. Perdono dal rancore al ricordo.
A cura di Alessandro Ramberti
(Fara Editore, 2017)
Antologia con testi di vari autori sul tema del perdono
Il mio testo
L’uomo vive di relazioni. Ma in ogni relazione vi è la possibilità del tradimento; ciò comporta inevitabilmente una ferita, una lacerazione, un distacco. Il perdono è l’unico rimedio per andare avanti, innescando una duplice dinamica: ricomporre il rapporto ed immettere di nuovo colui che è stato ferito (e, possibilmente, colui che ha ferito) nel flusso vivificante dell’esistenza.
Il perdono, dunque, ha un senso solo perché ha un fine: il fine è il nuovo inizio. Il suo fine è il futuro. Chi perdona vince la tentazione di rimanere impigliato nella morte, nel passato, nell’isolamento, ed opta per il futuro, che richiede una fede coraggiosa, ovvero una radicale rimessa in discussione di se stessi.
Lo stesso Giona, profeta ribelle, sembra soccombere a tale tentazione, perché incapace di aprirsi e comprendere il perdono di Dio verso una città ritenuta immeritevole. Cosa è infatti la sua fuga e il volersi gettare in mare se non un desiderio di morte? Non potendo accettare che Ninive venga risparmiata dalla distruzione, preferirebbe morire piuttosto che sopportare il perdono: “Ora, dunque, o Signore, prendi, ti prego, la mia vita da me, giacché preferisco la morte alla vita!” (Gio 4,3). Rav Roberto Della Rocca osserva: “… salire sulla nave, scendere nel ventre di essa, cadere addormentato, trovarsi in mare, e quindi nel ventre del pesce. Tutti questi simboli stanno per la medesima esperienza interiore: per la condizione di trovarsi protetto, isolato e distaccato da ogni comunicazione con gli altri esseri umani.”
Quando si parla di perdono nella tradizione religiosa ebraica e cristiana, al primo posto non viene messo il rapporto uomo-Dio, ma il rapporto uomo-uomo. Di fatti, lo stesso perdono di Dio nei confronti dell’uomo presuppone una riconciliazione tra gli uomini; analogamente, nessun dono è gradito a Dio se l’uomo non è in pace con il fratello: “Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello” (Mt 5,23-24). In ebraico, si parla di “teshuvah”, ovvero di risposta/ritorno dell’uomo a Dio, passando dal rapporto autentico con il prossimo.
Affinché il perdono non si riduca ad una “tabula rasa” fine a se stessa o ad un “rammendo” di scarsa tenuta, cosa occorre? In altri termini, come fare in modo che il nuovo inizio si prolunghi nel tempo e si trasformi in viatico? Non basta aprire all’uomo la porta della prigione: è essenziale renderlo più forte nell’affrontare le asperità del cammino. Il perdono, se vuole essere un dono duraturo, dovrà non solo “alleggerire” chi perdona, ma anche far crescere il senso di responsabilità in chi viene perdonato. Il senso di responsabilità non può però prescindere dalla presa di coscienza delle proprie azioni, dalla conoscenza di sé e dal ravvedimento.
A questo punto, sorge spontanea la domanda su “quando” perdonare. Affinché il suo effetto sia profondo e durevole, il perdono deve giungere in un secondo tempo, come conseguenza del riconoscimento dell’errore da parte di chi lo ha commesso? Ovvero, l’offensore deve essere innanzitutto lasciato alla propria fatica, che è quella di percorrere il cammino del pentimento, senza facili scorciatoie? Oppure il perdono deve essere il primo passo? Può esso stesso innescare una presa di coscienza? La gratuità di un gesto può trasformare una persona ed indurla al ravvedimento?
Personalmente, non credo sia semplice trovare una risposta, soprattutto quando si passa dalla teoria alla vita. La vita, lo sappiamo, è fatta di sfumature, di dinamiche e di fasi che s’immettono le une nelle altre. D’altronde, forse non esiste né un perfetto pentimento, né un’assoluzione definitiva. Ciò che esiste è una lotta ripetuta, per impedire alla morte di prevalere sulla vita, mentre l’esistenza non segue un corso lineare, ma procede a spirale, di dolore in dolore e di vittoria in vittoria, esigendo ogni volta uno sforzo di riconciliazione innanzitutto con noi stessi, poi con chi ci ha ferito e, di conseguenza, con il mondo.
In questa lotta è utile rimanere vigili per non lasciarsi sopraffare dall’odio, che può trasformarsi in desiderio di vendetta e non di giustizia. Etty Hillesum, nel suo diario (1941-1943), scriveva: “[…] ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in se stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri. E convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancor più inospitale” (settembre 1942). E Lev Tolstoj, in uno dei suoi saggi del 1882, osservava: “Come non si può spegnere il fuoco con il fuoco, né asciugare l’acqua con l’acqua, così non si può eliminare la violenza con la violenza”.
Se, da una parte, è necessario resistere all’istinto vendicativo, dall’altra è anche importante, come ci consiglia Paul Ricœur, non cedere al “perdono facile”. Ricœur ci mette in guardia in particolare contro il “perdono di autocompiacimento” ed il “perdono di benevolenza”, due trappole in cui a volte si può cadere. Nel perdono di autocompiacimento, secondo Ricœur, l’offeso si compiace della propria capacità di perdonare per affermare la sua superiorità sull’offensore e per ristabilire il suo potere sul colpevole. Nel perdono di benevolenza, invece, l’offeso crede di poter recuperare l’offensore in modo indolore e frettoloso, come se il torto si lasciasse cancellare con un colpo di spugna. Entrambe le trappole, innescate da una spinta narcisistica o da un’ingenua superficialità, non hanno molto a che vedere con il vero perdono, che deve fare i conti con il peso della colpa e del lutto.
Il vero perdono non sceglie la rimozione e l’oblio, ma accetta di convivere con la sofferenza che, una volta rielaborata, può condurre alla purificazione della memoria. A proposito del dolore, Etty Hillesum appuntava: “Il dolore ha sempre preteso il suo posto e i suoi diritti, in una forma o nell’altra. Quel che conta è il modo con cui lo si sopporta, e se si è in grado di integrarlo nella propria vita e, insieme, di accettare ugualmente la vita”. E ancora: “Se tutto questo dolore non allarga i nostri orizzonti e non ci rende più umani, liberandoci dalla piccolezze e dalle cose superflue di questa vita, è stato inutile” (luglio 1942). La memoria dell’offesa subita, rimanendo lucida, non dovrebbe “inibire” ma “ricreare”, generando nuove possibilità ed aprendosi al futuro.
È verso questo “perdono difficile” che si orienta il messaggio evangelico, che, in fondo, è una proposta, anzi una scommessa. Partendo dal fatto che Gesù ha spezzato la ruota dell’odio, opponendo alla violenza la non-violenza (“Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete?… Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla”, Lc 6,32-35), l’annuncio cristiano scommette sul potere ricreatore del perdono e sulla sua capacità di irrompere nella coscienza, rigenerandola dall’interno ed inducendo l’uomo a tornare alla sua “umanità”, che è “relazionalità”, nella convinzione che è sempre possibile ricominciare daccapo. Come il colpevole non è riducibile alla colpa, così l’offeso non deve lasciarsi definire dall’offesa.
Quando parliamo di perdono, però, sarà bene ricordarci non solo dei casi estremi, in cui vittima e carnefice sono figure facilmente distinguibili, ma anche dell’esperienza quotidiana, anonima, ambigua e contraddittoria, in cui i piani relazionali si sovrappongono e la linea di demarcazione tra i ruoli non è mai netta o tracciata una volta per tutte. Nella realtà che sperimentiamo di consueto, la disponibilità a perdonare e a chiedere perdono è essenziale per il semplice motivo che, anche quando non ve ne è l’intenzione (e a volte la consapevolezza), è inevitabile ferire ed essere feriti, perché diverse sono le sensibilità e diversi i codici comportamentali.
Per questo, il nostro rapporto con gli altri dovrebbe spingersi addirittura oltre la logica della colpa e del pentimento. Dovrebbe andare al di là dei torti e delle ragioni. Se riusciamo a capire la differenza tra colpa e responsabilità, siamo già a buon punto. Non si ha colpa, ad esempio, se l’altro soffre perché ci ha fraintesi o ha usato strumenti sbagliati per interpretare il nostro agire, ma, se esiste una relazione, non possiamo esimerci da un senso di responsabilità nei suoi confronti. E, soprattutto, non possiamo rimanere indifferenti al suo disagio.
Se la parola “perdono” ci pare troppo pesante, possiamo sostituirla con la parola “scusa”. Chiedere scusa agli altri e scusare gli altri, senza sminuire o ingigantire il proprio o l’altrui malessere, ma tentando di rivelarne e di comprenderne la natura, è frutto di una caratteristica umana fondamentale, l’empatia, che non vive di astrazione, ma predilige la concretezza. E che si riassume così: “Se stai male tu, sto male anch’io”. Riconosciamolo: non c’è maggior dolore che l’aver contribuito al dolore altrui. Non è un caso, allora, che la gioia più profonda e trasformatrice nasca proprio dal perdono, concesso e ricevuto.