Distanze
Autori Vari. Distanze.
A cura di Alessandro Ramberti
(Fara Editore, 2018)
Antologia con testi di vari autori sul tema della distanza
I miei testi
Distanze: lo spazio, il tempo, l’interiorità
Qualcosa accade
a distanza
qualcosa a distanza
di tempo
e qualcosa
accade soltanto
quando è stata compresa
soprattutto
se a portarla era il caso.
(da “L’arte di cadere”, 2016)
Spazio geografico, tempo, interiorità: queste sono le dimensioni nelle quali ci muoviamo, confrontandoci di continuo con la distanza, a volte dolorosa, spesso necessaria.
Anche al nostro interno siamo fatti di distanze. Il nostro spazio interiore è sia uno spazio di autoconoscenza, ovvero di distanza tra chi siamo (quel magma di scintille e di detriti, non sempre accessibile) e chi pensiamo di essere, sia uno spazio di tensione desiderante, cioè di distanza tra le nostre più intime pulsioni e la capacità di dar loro forma.
Le mani intrecciate
mio amore
tentiamo il passaggio
dalla febbre notturna
al coraggio
ma intatti
ricadiamo nel sonno
sotto le palpebre
un’onda
una stessa luce di luci
come acqua che tiene
due relitti sul fondo.
(da “L’ultimo quarto del giorno”, 2018)
Nel nostro spazio interiore vive anche l’ombra, che ci portiamo dietro come un alter ego, in un gioco di opposti riconciliati o inconciliabili.
Le due Elene*
(*In una versione del mito, Paride non rapisce a Sparta la vera Elena, ma un’immagine fatta di nuvole e d’aria che Era ha messo al suo posto. È questo simulacro che il figlio di Priamo conduce a Troia. All’insaputa di tutti, la vera Elena vive nascosta in Egitto, finché la nave di Menelao, di ritorno da Troia, approda in quel paese spinta dai venti. Il re ha con sé la falsa Elena, credendo che sia la sua sposa. Quando le due Elene si incontrano sulla spiaggia, quella fatta d’aria scompare e la vera, dopo lunghi anni di attesa, riprende il suo posto accanto a Menelao, tornando in patria. La seguente poesia è una rilettura del mito: nella prima parte, mi riferisco all’Elena in carne ed ossa, nella seconda, a quella di nuvole ed aria)
I.
L’altra
ti viene incontro
è ormai vicina:
uguali
il tono i lineamenti
il tempo dentro ai gesti
la fierezza
ma gli occhi
rondoni
già lontani
e il corpo
forma d’aria
turbamento.
Sei tu
colei che aspetta
immutata
fedele al vecchio patto.
Lei è il tuo doppio
perfetto irreale
la non-scelta
la solo immaginata
dentro a un sogno
che tu stavi sognando
prima di altri
là dove
amore è guerra
e tutto ciò che sfugge
si rinnova.
Lo vedi, la spiaggia
si dilegua.
Il fato ti ritrova
e il ricordo
che torna alla tua terra
è questa nave
lenta.
Prende te sola
ma porta
– dell’altra –
l’addio illusorio
che fende il nero il mare
sempre uguale
col suo
rostro d’avorio.
II.
L’altra
ti viene incontro
è ormai vicina:
uguali
il viso il portamento
ma il peso
che dà radice al corpo
è nel suo passo.
A terra si proietta
soltanto
la sua forma.
Tu che ti aspetti
stupore nello sguardo
che t’incrocia
non vedi che rimpianto
in quella donna.
Eppure
la storia che lei canta
è tutta intera. Non sa
dello spezzarsi della vista
– del tempo discontinuo
che ha il pensiero
il desiderio – non sa
della violenza
che ti sposta
né del rischio
dello sbaglio.
Tradimento.
La vita lei
l’ha attesa
tu l’hai colta
nell’estasi e nel vuoto.
Il prezzo che hai pagato
è di essere un abbaglio.
Ora è venuto
il tempo della resa.
Ti spogli
le rendi la bellezza
l’incerta sicurezza
che l’esistenza è una.
Mentre le affiora
sotto gli occhi
un’altra ruga
tu scompari
nell’aria
come in uno specchio
un fremito
un brivido già in fuga.
(da “Ti slegherai le trecce”, 2017)
Il nostro spazio interiore, nella sua complessità e contraddittorietà, è lo spazio al quale non possiamo sfuggire. È la dimora che siamo chiamati ad “abitare” giorno per giorno: dobbiamo abitare chi siamo.
Viviamo
e vogliamo narrarci.
Ma si sfa ogni racconto
nel dirsi: non c’è filo, né trama.
Solo esiste
uno stare nel mondo
(sia sul fondo
che sul pelo dell’acqua).
Solo questo ci basti
e ci prema:
abitare chi siamo.
(da “L’ultimo quarto del giorno”, 2018)
Per abitare chi siamo, dovremmo scardinare l’idea di un’identità predefinita o di una struttura interiore che, “conquistata” a fatica, ci possa corrispondere una volta per tutte. Abitare chi siamo significa abitare uno spazio in relazione ad altri spazi che ci modificano e che si modificano, attraverso uno scambio che avviene a livello di sensi e di intelletto, di memoria e di desiderio. “Abitare chi siamo” non corrisponde al “raccontare chi siamo”, perché la vita, a differenza della narrazione, non è né coerente, né lineare, ma si sviluppa per intrecci, sovrapposizioni, capovolgimenti. Eppure lo spazio interiore non rinuncia all’orientamento. L’orientamento è il senso che cerchiamo di volta in volta. Se non ci fosse questa ricerca di senso, non ci sarebbe neppure movimento, incontro con l’altro e con l’alterità, non ci sarebbe sorpresa.
La ricerca di un senso influisce anche sulla nostra percezione del tempo. La distanza temporale non è infatti uno spazio definito e definitivo, ma è una “danza di confini” messa in atto dall’esercizio di interpretazione che la memoria, insieme al cuore e all’intelletto, compie sul passato.
Mina già esplosa
in un punto preciso
mina distante
o a un soffio dalla soglia
il passato
non muta
nello scoppio avvenuto
in cui accade la vita
ma varia
l’aprirsi di breccia
che lo segue
se a lui torna il pensiero
la corona di schegge la pioggia
che cade all’infinito
l’instabile profilo del presente
che di sé trova
volgendosi
l’ennesima variante.
(da “L’ultimo quarto del giorno”, 2018)
Il passato o, meglio, ogni singolo evento del passato, esiste unicamente nella rilettura che ne fa il presente, luogo privilegiato che permette allo sguardo di spaziare oltre i suoi stessi confini.
Il passato non resiste.
Nessuno dei suoi angoli
rimane, solo
l’arco
su cui insiste:
dosso di terra
aderente al nostro passo.
Da qui
si avvista l’orizzonte.
Perché il passato
(se esiste)
è quest’assenza
che riempie l’aria
incrina serpentina
il cielo
preme convessa.
È il temporale
che lampeggia
che corteggia
la circonferenza
ma poi non si avvicina.
(da “L’ultimo quarto del giorno”, 2018)
La distanza nel tempo è, dunque, una convenzione. Tutto ciò che ha avuto un impatto nella nostra esistenza non potrà mai essere “distante”. Il magma delle nostre vite, fatte sia di “incendi” improvvisi che di lente stratificazioni, è presente al fondo di ogni istante. E in questo fondo c’è tutto un alfabeto di parole, leggere e infuocate, pronte a ricombinarsi.
Sembrano assenti
chiuse
nella loro bellezza
ma vivono in gruppo
con fallaci spostamenti
e una grazia urticante
di meduse.
Nessuna parola
seppure lontana
nel tempo
è distante.
(da “L’ultimo quarto del giorno”, 2018)
La poesia stessa ci aiuta ad accorciare la distanza tra presente e passato. Ci aiuta a farlo, perché è un modo di vivere il tempo che privilegia due aspetti: attenzione e cura. Attenzione a non perdere di vista il presente, sotto la tirannia dei ricordi o delle aspettative. E cura nel trasformare l’evento in esperienza, intessendo un legame tra gli istanti più in rilievo, conciliando così la prontezza e la pazienza del vivere.
Anche la distanza tra l’io e il mondo è accorciata dalla poesia, che chiama a sé, ricreandolo, ciò che ci è caro, e che accoglie persino l’ombra, le fa spazio, con essa si confronta.
Si scava una parola
come nel tufo
una nicchia
che accolga cari
simulacri.
Nasce dal vero
l’immagine amata
e dal corpo assente
il verso
che lo invoca, che tenta
di farsi nel tempo
compenso
riparo.
(da “L’ultimo quarto del giorno”, 2018)
Ma la distanza tra l’io e il mondo non sarà mai annullata. La conoscenza stessa non cancella il mistero insito nell’altro. Proprio nel momento in cui approfondiamo la conoscenza di una persona, ne scopriamo l’inafferrabilità.
Goccia sprovvista
del destino.
Chiarissimo cammino:
diritto era lo stelo
che mi ha condotto a te
stagliata foglia.
Ma è quando ti ho raggiunto
che tra le nervature
ho perso il cabotaggio
l’antico orientamento
per farmi tempestoso labirinto.
(da “Per ogni cosa incompiuta”, 2008)
La distanza tra l’io e il mondo, soprattutto se vissuta partendo dalla relazione irrisolta con una persona amata, è percepita con un senso di dolore e di inadeguatezza.
Lo sparo
Dispersa
ti cerco.
Sono uno scuro
stormo
che s’alza
dal campo.
Sii vero.
Allarga le chiome
ch’io possa
riunire i miei nomi
sostare.
Ma è in basso
il raccolto
e il tuo spazio una sfida.
Con l’ombra
dilati
quel pezzo di terra
che invita
al furto.
È colpa o destino
tornare insaziata
tra l’erba sottile
scacciata
in eterno
da uno spettro
un fucile?
(da “L’ultimo quarto del giorno”, 2018)
La sensazione di disagio o di dolore legata alla distanza può avere, però, un rimedio: la responsabilità, il farsi carico di qualcosa e di qualcuno al di fuori di noi stessi. Questo crea “vicinanza”. È un sentimento che proviamo in modo naturale nei confronti di un figlio.
Ora di punta
(, dicembre 2015)
Come in un’eterna
ora pendolare
in cui il corpo è sorretto
dal vicino
e superfluo
è perfino un appiglio
così anch’io rimango in piedi
grazie a voi
che vi moltiplicate
ogni giorno un pochino
e aderente
al vostro bisogno
mi tenete
non mi lasciate
spazio sufficiente
per uno scarto muto
che un po’ somigli
a un pensiero di morte
a una caduta.
(da “L’ultimo quarto del giorno”, 2018)
La vicinanza favorita dalla responsabilità non è solo premura, ma anche rispetto, dunque capacità di creare una giusta intercapedine, un necessario spazio vitale.
Affresco
(per mio figlio, maggio 2015)
Se volessi fermare
nell’arriccio
questo attimo perfetto
di dolcezza
(sabbia pura di fiume)
tradirei il senso
ancora in divenire
la parte di te
forse migliore
il tuo vero pigmento.
E invece ogni momento
va steso, non sottratto
al suo destino:
va dato al tempo
quando il tempo
è ancora fresco.
Così
sul fondo che ti spetta
anch’io devo lasciare
che tu cresca.
(da “L’ultimo quarto del giorno”, 2018)
Tra le distanze che segnano il nostro umano cammino, la nostra ricerca di senso e lo sguardo che rivolgiamo al mondo e agli altri, vi è certamente la vicinanza/lontananza di Dio nella storia personale di ciascuno, ovvero il modo in cui percepiamo il principio della vita stessa. La sacralità e l’inafferrabilità di questo principio (indipendentemente dalle immagini che gli vengono associate) pongono l’uomo davanti al proprio limite. Ma è in virtù del limite, della finitezza e del dubbio che può nascere qualcosa di estremamente prezioso: la fiducia. Tutti noi sappiamo che le forze che permettono alla vita di preservarsi mutando vanno al di là della nostra mente e della nostra volontà. Per esistere, non possiamo che avere fiducia. E la fiducia, come la speranza, è lo spazio che spingiamo un po’ più avanti ad ogni passo: uno spazio che, attraversato, non si esaurisce.
Al Dio ignoto
Lascia che dentro Te
integra sabbia
io pianti la punta
come anfora d’argilla nella stiva
un poco storta.
Ma fa’ che mai non abbia
la certezza
se sia d’amara oliva
o d’uva
il sangue
che in me questa natura
a un’altra meno labile pienezza
già trasporta.
*
Sei così Altro
dal sommo appiglio
dalla ragione dallo sbaglio
che sei anche me.
Lo sei in quest’ora.
E dislocato nella parola
rivolta senza sosta
sei il tempo che mi occorre
per darti
una risposta. Non prima
ti esaurisci.
Sei il modo in cui mi riesce
balbettando
di arrivare fino in fondo.
*
Per sempre a contatto
resta di me tangente
al mio esiguo spazio
resta contiguo
fuori di me
parte spettante
alla ragione
il più libero perché
resta
amorevolmente
necessario
contingente
resta
la sferza la forza
di trasformazione.
(da “L’ultimo quarto del giorno”, 2018)