Gli spostamenti del desiderio
Moretti e Vitali, 2023
Scandaglio dello spazio tra reale e immaginario, alla luce del desiderio
Presentazione di Giancarlo Pontiggia
Con Gli spostamenti del desiderio Raffaela Fazio affina ulteriormente la riflessione sul senso dell’esistere, costante pungolo della sua scrittura, partendo questa volta da una prospettiva inedita: il desiderio come forza che ricalibra il reale modificando di continuo la visione e orientando il passo. L’instancabile messa a fuoco operata dall’autrice avviene sia grazie all’immersione nella propria coscienza, sia tramite il confronto con il mondo, con la storia, con l’arte (qui, in particolare, con il cinema e con la letteratura). Un simile dialogo era avvenuto anche in libri precedenti: Midbar era ispirato a figure e narrazioni dell’Antico Testamento; Ti slegherai le trecce riprendeva archetipi femminili della mitologia greco-latina; Meccanica dei solidi faceva rivivere personaggi anonimi della storia recente, capaci all’improvviso di un eroismo grandioso.
Sotto questo aspetto, ogni silloge di Raffaela Fazio, oltre ad essere uno scandaglio interiore, ha la consistenza di un quaderno morale. Non è un caso che Gli spostamenti del desiderio, che si aprono con un lutto irrimediabile e si nutrono di una materia profondamente autobiografica, febbrile e lucida al contempo, si concludano con alcune poesie ispirate al diario di Etty Hillesum, morta ad Auschwitz nel 1943, e alla sua testimonianza luminosa.
Qualcosa, anche nel buio della storia, personale e collettiva, continua a bruciare in quel misterioso anfratto della coscienza in cui le forze del desiderio e dell’immaginazione, della lingua e della memoria non si arrendono alla crudezza dei fatti. Tra lo sguardo e la parola, tra ciò che si perde e ciò che risorge, è l’enorme materia del vivere con la sua energia rigenerante: «Tanto nero. / Ma solo / raggiunto il fondo / senti / che non ha materia. / È un foro. / Non dissimile / dal cielo».
***
Dalla prefazione di Alfredo Rienzi
Rimanere al posto di guardia
Ne Gli spostamenti del desiderio, la parola di Raffaela Fazio ci viene offerta precisa, densa, tagliata e imbastita con un dominio mai esitante. La vediamo muoversi con la stessa trasparente intenzione per tutta l’opera, percorrendo, arando, interrogando […] ogni palmo del terreno dove l’autrice ha edificato le sei sezioni della raccolta. […] È questa innegabile attenzione architettonica una prerogativa ormai ineludibile del corpus poetico finora testimoniato dalla poetessa aretina.
[…] Gli spostamenti del desiderio, letteralmente, declina al plurale i moti, ma perentoriamente al singolare il soggetto, seppur mobile e mai monolitico. Non si tratta di rincorrere – né da parte dell’autrice né del lettore – la migrazione e/o la rifondazione di desideri […]. Si tratta, invece, di essere vigili, non solo sulla natura del desiderio, ma sulla propria modalità di stare nel desiderio.
Cinque sezioni più una, dicevo.
La una è la prima, Black-out, aggiunta all’opera quando questa si pensava fosse compiuta. Un lutto improvviso, la perdita di una persona amata, ha reso imperativo restare con essa in comunanza, in una specie di «aura di vita», citando il Proust di La Recherche, esigendo l’offertorio dei pensieri e del dolore e l’accompagnamento nel Viaggio, nel modo più prezioso e sacro con cui può immaginare di farlo un poeta, ovvero con la parola poetica. La parola poetica urgente, necessaria. Talora demiurgica: «La lingua […] ti inventa ancora un poco»; «eri tu a tornare, dicevo»; «questo mio improvviso/ aspettarti»; «Sei in me come la vita/ che nessuno vede»; «Sii vero. Ritorna/ perché riesca a lasciare/ che vada». Ma è ancor più una parola che si fa misurato – e perciò magnifico – canto rituale, intimissimo e cosmico, che puntella l’attraversamento verso le nuove realtà che accoglieranno chi resta e chi va. Anche in questo caso, soprattutto in questo caso (che Raffaela esplicita con consapevolezza quale estremo rito di passaggio, «il mio rito privato» «partendo dalla notte») il secretum contiene e attiene alla rideterminazione del senso del reale.
[…] La breve ed epigrafica nota che precede le sezioni instrada subito il lettore, indicando il desiderio quale strumento di misura «tra due stati della coscienza […] tra due vissuti diversi […] tra due differenti momenti» della propria vicenda individuale, quale meccanismo interiore atto alla continua ridefinizione del «senso del reale». In quanto tale, il desiderio si rivela allora orientamento, movente, spinta che, di volta in volta, dirige concretamente il passo sul cammino quotidiano.
In un gioco duale («i più strani accoppiamenti/ di fango e di purezza»; «di crescita e di arresa»; «la cosa morta e la cosa viva»; «l’ucciso» e «l’uccisore»), i testi della seconda sezione, Proiettivo, soprattutto nella serie delle Anamorfiche, conclamano che non è la condizione sterile di de-siderato, privato del cielo, ad avvolgere il poeta, ma quella terrena di contingente complessità e potenzialità: «la terra (e non il cielo) è il carniere/ l’umano punto di osservazione».
Questi ultimi versi, e in particolare il sintagma «l’umano/ punto di osservazione» (e altri: «punto ideale/ da cui osservare l’ombra»), aprono tautologicamente una prospettiva che non potrà sfuggire al lettore già dalla titolazione delle sezioni (Black-out, Proiettivo, Match Cuts, Materia oscura, Retina inversa, Tra occhio e parola), indicando la sinopia che corre tra di esse: la visione.
L’atto della visione − della sua deformazione, manipolazione, occlusione, come del suo emergere più cristallino, in maniera progressiva o improvvisa − è centrale nella raccolta. La visione, mai terminata né indubitabile, è uno sforzo permanente: «si cerca di vedere»; «È il cuore che detta/ la prima visione/ […]/ Ha il difetto di vedere/ ciò che è suo/ solo come vivo»; «lo sguardo fisso»; «Distogli la vista/ dal punto che fa male»; «Guarda, lo vedi, è qui il punto»; «Guarda bene» ecc.
Il vedere esteriore è un mezzocielo, che si completa con l’osservazione interiore, con la vigilanza sui moti e sugli inganni della memoria e del subconscio, sui suoi scotomi: «…il reale/ è anche lui sommerso/ – innesto di varianti, di pulsioni»; «sul fondo della memoria/ la cosa morta e la cosa viva/ sono appena un mutare/ di prospettiva»; «Dentro al corpo […]/ un occhio alla rovescia/ […]/ È a quell’occhio/ che lei fa da sentinella»; «Chi porterà alla luce/ il teschio o il forziere/ che ci teniamo dentro?».
L’attitudine e la tensione al vero, alla corrispondenza tra parola e verità, persegue un atteggiamento di parresia morale e deve sfidare gli scogli dell’illusione, dell’irrealtà, del sogno: verso questo percorso insidioso orientano le epigrafi delle varie sezioni dove le voci di Jean-Jacques Wunenburger, Cesare Musatti, Seneca, Leonardo Sciascia convocano a folate il reale e l’irreale, il sogno e la verità. E a questo necessitante discernimento si offre una forte nervatura che percorre i testi di Gli spostamenti del desiderio: «Il sogno/ è identico alla vita […]/ Ma poi è anche il suo opposto»; «il reale […]/ Il suo opposto/ non è l’immaginario»; «Cosa ci definisce?/ […]/ È come/ la parte prende parte/ al sogno dell’insieme».
Ogni sezione mantiene una propria coerenza interna e di riferimenti, ribadisco: stanze complete nel palazzo che è l’intera opera. La visita diretta del lettore deve valere più di ogni planimetria che un geometra-prefatore possa voler tracciare. Noterò solamente, ancora, come da sempre la poetica di Fazio ci abbia proposto un ventaglio d’occasioni ampio e diversificato. Tra i numerosi filoni e modi che scorrono dal monte delle precedenti raccolte, mi ha colpito, in particolare, la linea retta che discende dalla precedente raccolta della poetessa, Meccanica dei solidi (2021), dove tredici storie di vittime – uomini e donne morti nell’intenzione o nel tentativo di aiutare altre persone in difficoltà o sacrificatisi intenzionalmente in cambio della salvezza altrui – venivano corredate da essenziali notizie sull’accadimento. L’ultima sezione de Gli spostamenti del desiderio, Tra occhio e parola, nitidamente orientata alla sintonia profonda dell’opera tutta, dedica sette testi ad altrettanti personaggi – dal veterotestamento all’attualità – e, per ognuno, una breve notizia di circostanza. Il filo rosso che accomuna questi destini, nella diversità delle epoche e delle circostanze, è la volontà di rendere conto del “vero” anche attraverso la parola, secondo quel già citato atteggiamento di parresia, che qui aggiunge alla sfera personale una dimensione sociale.
Il componimento che chiude la raccolta – diciotto frammenti ispirati al diario di Etty Hillesum – suona, in alcuni passaggi, oltre che come un lascito della giovane ebrea olandese, come un desiderio ultimo dell’autrice, in questa tappa del suo percorso poetico e di vita: «Essere fedeli/ a ogni pensiero/ che ha iniziato a germogliare/ a ogni sentimento./ E ovunque si è/ essere là/ al cento per cento». E, per ultimo: «Mi raccomando, amici/ rimanete/ al posto di guardia/ se voi, nel profondo,/ ne avete già uno».
Poesie
Non la cerco
per lasciare il bosco
(se è nel bosco
indicibile la vita)
o come chi si arresta
a un cerchio di radura
la cerco per vederla
dentro la foresta
anche nel folto dei fantasmi amati
declinati
a seconda del dolore
qualcosa di vivo
personale, che resta
parziale ma non mente
(comune la sorgiva)
onnipresente seppure discontinuo
persino in ciò che tace
o dice
sia il vuoto sia l’eterno
oltre il confine
e nel fitto dei racconti umani
luce che filtra
come sogno ripetuto
pare si spezzi
e invece si rivela
(a unire i tempi
a renderli reali)
filo abissale
materna chiarezza.
*
Se avessi saputo
quanto è vera la morte
avrei silenziato
l’assalto alle tempie
usato altre armi
avrei in me spogliato
fino all’ultima maglia il nemico.
Se avessi capito
che la morte non rende ciò che porta via
in battaglia
sarebbe stato il colpo
non questo suono bianco
incessante distorto
di corno
nelle retrovie.
*
O forse il crollo
è il bianco che cancella
ogni estensione
la negazione
di ciò che si proietta
è come dire al fiato
cessa
al corpo smetti
di ricordare.
È non avere un luogo
in cui saperti
né un tempo per l’attesa
tu che sei stato
ovunque ti pensassi.
Mio fondo desiderio
e prova
che basta un niente
per sentirsi vivi
lo stesso niente che smantella
trave su trave
tutto l’esistente.
*
È il cuore che detta
la prima visione.
Quando mi hanno scritto
che eri morto
d’istinto ha cercato il motivo
di quella finzione.
Ha il difetto di vedere
ciò che è suo
solo come vivo.
*
Anamorfico I
Il corpo che si tende
la nebbia che trattiene
la nebbia che nasconde
il corpo che le appartiene
hanno nel sogno
la stessa natura
così sul fondo della memoria
la cosa morta e la cosa viva
sono appena un mutare
di prospettiva
e nel passare
dal sonno alla veglia
la vita è uno sfaglio inatteso
quasi animale
l’istinto a tornare
a un pulsare indistinto
nel buio
nel folto
della boscaglia.
*
Anamorfico II
Nessuna cosa immaginata
torna indietro.
Appena concepita
entra nel tempo, si dilata
per il piacere ambiguo di esser vista.
Infine destinata alla caduta
di nuovo si riduce
si fa muta
eppure mai si sveste
di un’anima sottile
di stupore.
*
La moglie del medico
(“Cecità” di José Saramago)
Tabula rasa
la nudità del caso
che azzera i privilegi
i ruoli la forma la vergogna
e opera i più strani accoppiamenti
di fango e di purezza.
È questo un attraversamento
dell’assurdo
che inizia e che finisce all’improvviso?
O ne è l’insediamento
− il buio al nostro interno
tradito in pieno giorno?
Ho scelto
di restarti accanto. Su me ho caricato
il male che ho potuto
e il bene l’ho difeso da assassina.
Ora nel pianto
mi sento una bambina.
Il mondo è un lazzaretto.
Mi dite che vedete
nuovamente.
Ma dai miei occhi beve
un cane ossuto
e cara più di tutto
per me è la sua sete.
*
Mise en abyme
(“Inception” di Christopher Nolan)
Sogno dentro a un sogno
e il tempo si scompone
– mi alleno allo squilibrio
sulla corda
che tende all’epicentro
mentre si allontana dall’esterno.
Io, la mina
che squassa il labirinto
rivale di me stesso: il rimorso
si aggira a corna basse
ricordo che confonde
i piani del reale.
Ma il reale
è anche lui sommerso
– innesto di varianti, di pulsioni.
Il suo opposto
non è l’immaginario, è la prigione
tenaglia che contorce
il desiderio.
Per quanto l’abbia amato
ecco l’ho ucciso
il vero minotauro, lo sbaglio
del possesso.
Sono reale adesso
sì, lo sono
– liberato:
un padre che torna ai propri figli
o un figlio che riscopre
il padre al capezzale
e infine si perdona.
*
Wormholes III
È questa la paura:
sei spinta sulla soglia
da ciò che è in te eppure ti sovrasta
quasi ti annulla.
Indietro non esiste
né passo né intuizione.
Da te ora è l’accesso.
Sei solo tu il pertugio − anello rotto
da cui avverrà il trapasso
del confine.
Non sai se darà un senso
al muto indugio
o se tra corpo e corpo
seminerà rovine.
*
Esercizio di discernimento
Le conseguenze della collera sono molto più gravi delle sue cause (Marco Aurelio, “Pensieri”, Libro XI, 18, viii).
Guarda bene.
In ciascuno, erbe sane e veleni.
Ma è la dose
che dà forma al tutto.
È il suo impatto
il suo costo
è ciò che prevale.
Non confondere il buio
del quale
si rivela il profilo
per tenerne nascosta la massa
la violenza
che si dice (se ammessa)
ferita
˗ accudita persino dal mondo ˗
anche quando
tra i corpi
scavalca il confine.
Non è alieno il suo seme
a nessuno.
Tu stai attenta al terreno
dove cresce
si allena
si sdoppia
rinverdisce ogni volta.
Scappa
prima.
Se là crolli
ti daranno la colpa.
*
Tanto nero.
Ma solo
raggiunto il fondo
senti
che non ha materia.
È un foro.
Non dissimile
dal cielo.
*
Distogli la vista
dal punto che fa male
al centro immaginario
− sia fuoco sia avamposto.
Non meno
affonderà i rizomi
reclamerà frattali all’infinito.
Ma cerca tutt’intorno
raccogli gusta guarda.
Diventa tu il terreno
che lo accoglie e che lo spoglia
(dall’interno) di spore, di pretesti.
Respira.
La notte è fatta d’aria.
*
E dove
di nuovo un’interezza?
Non a ritroso
prima della lama
ma nelle acque incerte
nell’attesa
che a renderle feconde
sia un giorno la parte già recisa
ora inerte, a riposo
sul fondo.
Che la forza
servita al distacco
ci converta
in qualcosa
che nasce dal dolore
e infine l’allontana
come muta
il sangue di Medusa
uscendole dal collo
un catafalco di alghe
in una pira
viva
di corallo.
*
Etty Hillesum
Dentro
mi porto tutto
anche a fatica, col fiato corto.
La vita, una cesta piena
sino alla fine.
E se interrotta
farò il mio meglio
sulla soglia di un’altra stagione
passerò – staffetta –
il testimone.
*