Ti slegherai le trecce
Coazinzola Press, 2017
Rivisitazione della mitologia classica al femminile
Dalla postfazione di Francesco Dalessandro:
[…] La sopravvivenza del mito ci è necessaria perché nel suo specchio riconosciamo il mondo. Il mito, coscienza infinita dei nostri limiti e della nostra umanità, è multiforme; ha bisogno della voce per vestirsi ogni volta in modo diverso, senza perdere la sua identità. Quando il mito viene trascritto è come se si irrigidisse: diventa più preciso e meno sfuggente, però più limitato. La scrittura può dargli una forma definita (mai definitiva), come nella Biblioteca di Apollodoro o nelle Metamorfosi di Ovidio, ma nessuno può assumerne la paternità, solo interpretarne il senso. È quel che fa anche Raffaela Fazio in queste poesie, nelle quali coglie il momento cruciale della vicenda di ventotto fra dee, ninfe ed eroine; oltre quel momento, niente è più come prima, perché il destino pone i personaggi di fronte a se stessi e la decisione o la scelta ne determina la vita o la morte. […] Raffaela Fazio non è interessata alla rappresentazione oggettiva del mito, ma a ciò che potremmo chiamare il “fermo immagine” su quell’attimo in cui tutte le esperienze si concentrano per produrre la catastrofe o, di rado, la catarsi: la lampada spenta di Ero, l’incontro di Elena col suo simulacro, Medea che accoglie in sé la funesta volontà del sacrificio e della vendetta, Arianna nell’abbandono del risveglio, Atalanta che arresta la sua corsa per raccogliere i pomi d’oro, Era che accoglie in seno il piccolo cuculo che la perderà, sconvolgendone la natura individuale per farne la ripetizione infinita di se stessa, Cassandra che tace davanti alla visione della propria morte. […] Il verso di Raffaela è preciso e ha una musica mai scontata: un sincopato jazz fatto di slanci e arresti, di frenate e riprese, di cesure accorte, e nel quale le frequenti rime, spesso interne, servono a scandire e a rimarcare il tempo; tutto con lo scopo di tenere avvinto il lettore. Si rileggano i versi già citati di Alcesti e si faccia caso alla loro scansione, alle pause così circostanziate, precise, necessarie; o si leggano Ero, Circe, Le due Elene, Cassandra, poesie fra le più belle: in esse, ogni verso e ogni cesura hanno la necessità delle cose incontrovertibili, e le immagini fioriscono spontanee, benché deliberate, coinvolgenti. «Il futuro / non vuole scorciatoie / ma una conquista / lenta». Cassandra lo comprende solo alla fine, nella visione del fuoco che arde il suo passato. Se a noi è riservata la saggezza, o almeno la consapevolezza, lo dobbiamo anche a quel “serbatoio figurale”, secondo la definizione di Gianfranco Contini, che è ancora il mito; al “nulla che è tutto”, secondo Pessoa, e alla sua capacità di rigenerarsi e di ripresentarsi ogni volta come archetipico di una situazione o di un agire, di uno stato o di un sentimento. Come qui, in questo libro di visionaria sobrietà.
Poesie
Medea
Fino al nero
tra muffe e radici
hai svuotato la terra
di umori.
Fino al nero
hai spogliato l’azzurro:
tra le onde
il sangue a te affine
l’innocenza smembrata
sul fondo.
E quel nero
è il corredo di nozze
che hai offerto – straniera –
al tuo amato.
Ma ora sceglie
il tuo sposo una sposa
più pura
regale.
Senza casa
né volto o memoria
raschi l’ultima traccia
fino al nero perfetto
oltre il grido
più inerme
nella carne
della tua carne
un conato
ora il vuoto.
Non fossi mai nata…
*
Afrodite
Nasci
dalla ferita, gioia
perfetta.
Sei
ciò che appari
intera nelle forme
che riveli.
Sciolti nel petto
i sapori
con cui riempi il cosmo
indossi le vesti
delle Ore:
dispieghi
al tempo giusto
ogni dettaglio
– il germoglio il frutto
e il suo cadere
il vento che riscalda e che raggela
chi gioca chi si accoppia
chi divora.
Ripeti
ma sei nuova
come l’accrescersi
dei petali in corolla
e l’infinita corsa
delle specie, delle onde
l’arte.
Tutto desideri e di niente
hai bisogno. Ti offri
in ogni cosa
e là sull’orlo
dove la morte
vira si fa
Sogno.
*
Persefone
Non ti conosci
né sai che congiunti
sono dolore e piacere
all’oscura fonte.
Soltanto segui
il volo bello
dei sensi
ragazza dalle snelle
caviglie.
Due volte
la mano s’allunga
– la voglia
incompresa.
Dapprima il narciso
che rompe la terra
lo specchio
e giù ti sprofonda
ti svela da sotto nel buio
il profumo.
Poi il chicco
che tenta le labbra
e feconda
ti sdoppia e riunisce
ti mette nel grembo
la primavera
e gemella
insanabile l’ombra.
*
Selene
Col mare ti unisci
e col pelo dei boschi
con l’esteso e il caprino
oltre leggi e misure
sconfini
non rimani
fedele
al ciclo che ti vuole
dare un nome
né a una forma.
Eppure
c’è una grotta
a cui ritorni.
Bianca luce dentro il buio
glabro pozzo
è quel corpo
preda docile
in eterno.
Tu che sei mutevolezza
ti avvicini
come un sogno
al sognatore.
Ne hai bisogno.
E nel crescere
somigli alla memoria:
credi intatto
il ricordo
a cui ti accosti.
Ma i tuoi baci
ti fanno prigioniera.
Non sai a quali chimere
danno vita
nell’infinito sonno
del pastore
(fa male la bellezza).
Lo tocchi
e ti chiedi
se è tuo
davvero
nel mentre lo possiedi.
*
Clizia
Puntasti
all’assoluto
al possesso
di ciò che non può offrirsi
a un solo sguardo.
Fatale gelosia
per chi ti fu rivale
fissavi il dio
del giorno
ingenerosa.
In alto.
Ma nessun dio
ci sposa dall’esterno.
Allora ti fermasti.
Fu dall’interno
della tua infiorescenza
che catturasti
il tempo
la luce
al centro del tuo volto
disco bruno
come terra
su cui hai pianto.
Ora matura
non giri più
il capo appesantito
verso il sole.
Il moto vero
è nel segreto
dei tuoi piccoli semi
a spirale
frattali
di galassie:
numero aureo
che lega
la vasta mappatura
della vita.
Dal pentimento è nata
una semente
riscatto
di condanna.
Gli uccelli porteranno
il frutto
dentro il becco.
Ti staccherai dal suolo:
andrai
dove essi vanno.
*
Artemide
Temono
la freccia che non sbaglia
la freddissima briglia
che sciogli al rancore
la tua perfezione
perché a nessuno
appartieni e nessun occhio
ti cattura
sfuggente
come cerva o lepre o quaglia.
Ma non sanno
del fuoco quando miri
unita intimamente al tuo bersaglio
della ridente cura
per le compagne ninfe
che sorvegli
giovane linfa agli anni
né del notturno passo
quando erri
nel tuo regno selvaggio
e arresa alla luna
ti perdi
oltre lo sguardo.
*
Euridice
Sotto il velo e le bende
sei bruma.
E una nebbia più estesa
ti tenta.
Sei pronta
alla dismisura
a slegare
dalla caviglia il bruciore
ricordo ultimo
di vita.
Ma inatteso il morso
di nuovo
pulsa.
Chi spinge
il tuo passo
attraverso il nulla?
Cosa segui?
Chi ti tiene?
La mano in altra mano.
Più ti stringe
più la presa s’allenta
e le dita si sfanno.
Chi ti precede
si volta
non capisce.
Controluce
il viso è un disco nero
un cerchio il tempo
e il suo futuro
nient’altro che un ritorno
a questa soglia.
Lui esce
nel giorno
ti lascia.
Tu resti
arresa distanza
foschia.
Scavalchi i contorni
ti stendi. Sei oltre
ogni scadenza
e crocevia.
*
Atena
Il tuo gioco è il prisma
del puro intelletto.
Chiarezza.
Lo sguardo frontale
che ordina il cosmo
e chiuso
sotto la corazza
il petto.
Sul torace l’effigie
di un trofeo:
la testa di Medusa
dentro il cerchio
non più spasmo
riflesso
nello specchio di Perseo
ma sulla tua armatura
ombra convulsa vinta
d i te stessa
scuro bottino
pupilla introflessa
o abile incrocio
di rimandi
se defletti e rendi
di pietra
chi cerca invano in te
una sapienza
che comprenda
l’Abisso
non lo chiuda
nel controllo
nell’oro
di uno scudo
di una circonferenza.
*
Circe
Un lampo negli occhi
come d’oro
ma tra le unghie
la più vorace
notte.
Rapace
nel volteggio
tracciavi circolare
il tempo che si chiude
sulla preda.
Tu stessa prigioniera
dell’incanto
che mantiene fermo
ciò che crea
e annulla nel possesso
chi penetra
nel cerchio più segreto.
Ma niente
nell’amore
è vivo se mansueto.
Niente ti appaga
se è inganno o solo
oblio.
Lo sai
da che l’ospite nuovo
ti si è scagliato contro
da guerriero.
Sulla sua spada
hai visto
che eri nuda
e l’isola
si è infranta. Il talamo
si è aperto
al divenire, alla fiducia.
Il fuoco
sposa l’ombra e l’ombra
non turba
più la luce
la spoglia del miraggio:
connubio tra gli opposti
come l’erba
dalle radici nere
e il fiore bianco.
Il gusto si conosce
dall’assaggio
ma il mistero
soltanto dal suo interno.
A lui che ti ha svelata
hai dato in dono
la via verso la morte
e poi il ritorno.
*
Alcesti
Un istante
rivela la vita.
Da quella improvvisa
fessura
fiotta il giorno
a ritroso
nella notte
attinge il suo senso
e l’addensa.
Chi è il tuo sposo?
Il suo riso
negli anni, il portarti
alle labbra il boccale
e la reggia
ospitale…
Era tutto una fuga.
E l’amore un pretesto
per scordare
se stesso.
Anche adesso
non risponde all’appello
non accetta l’estremo
confine
che suggella il suo nome.
Tu capisci.
E di colpo ribelle
offri il dono
chinando la testa:
oltrepassi la soglia
al suo posto.
Che scompaia
il tuo volto, lo specchio
che deflette
perché il buio
rimandi all’amato
il suo vero sembiante.
Sorridi e ti aspetti
che nel lutto
l’uomo solo
rinasca, s’impasti
di vuoto e di forza.
Non più vino, né canti
o battaglie. Basta
il nudo lamento
accanto a due figli
la fatica
della propria paura
il sedersi sul trono
di gemme o di ortiche
che ha apprestato la vita.
Non esiste un’uscita
dall’ombra
che ci forma e ci spetta.